La domanda di psicoterapia, nostra o dei nostri pazienti, nasce dal dolore e dalla confusione per qualcosa di complicato – o di troppo grave – che sta accadendo nella vita.
Il dolore ha in sé l’immagine della ferita, che mostra ciò che la pelle protegge e nasconde: la carne viva; metaforicamente: l’intimità dolente, sempre difficile da mostrare perché il dolore chiede di nascondersi, di non essere visto. Ma la ferita è anche apertura, esposizione di tenerezza e fragilità, e segnala un bisogno di cure, di un aiuto per la formazione di una nuova pelle.
Nel nostro lavoro, e durante la formazione, ci alleniamo insieme ai nostri pazienti a comprendere, vedere e curare ferite, e l’infelicità che ne deriva. Facciamo questo anche grazie a ciò che sappiamo di noi di stessi, da cui discende la nostra capacità di riconoscere, analizzare e utilizzare ciò che le nostre emozioni e la nostra storia – ferite incluse – ci suggeriscono, sull’infelicità che è di fronte a noi.
La ricerca delle risorse proprie dei pazienti e la trasformazione del significato dei comportamenti patologici in “dono d’amore”, sono cardini essenziali del nostro approccio terapeutico ma resta, diffusa nell’ambiente psicoterapico complessivamente inteso, una sorta di resistenza a cercare e riconoscere gli aspetti funzionali, positivi, felici dell’esperienza esistenziale dei pazienti, come se il significante fosse rintracciabile solo nel dolore e non, ugualmente, anche in ciò che si sperimenta come felice.
Da questa postura scaturiscono errori terapeutici, fatiche inutili per tutti, spreco di risorse umane.
Proveremo perciò, quest’anno a Torre Canne, a esercitarci sul riconoscimento di quelle parti che hanno a che fare con l’altra faccia del dolore, la felicità, allo scopo di renderle maggiormente riconoscibili e disponibili per noi stessi e per il lavoro che facciamo, allo stesso modo in cui impariamo a riconoscere e trattare le nostre ferite.
Cominciamo allora col fare a noi stessi queste domande:
Un’inutile esercitazione filosofica, qualcuno penserà…
Mettiamola così, invece: una ricerca profonda – non usuale e perciò non scontata – su ciò che penso della mia e altrui capacità di star bene, e sulla mia capacità di conoscere (e conoscermi) anche nella capacità di godere, riconoscere (ciò che dà e mi dà felicità), essere riconoscenti (a chi mi ha dato quel poco o quel tanto che dà felicità).
Come avete già intuìto, tocca fare un’esercitazione multipla: teorica (rispondendo alla domanda 1), riflessiva personale (rispondendo alle altre domande), e quindi di confronto nel gruppo, per elaborare un punto di vista definito, da proporre alla comunità di Change sul rapporto tra ricerca della felicità e psicoterapia (cioè sulla domanda 4).
La formula sarà quella già felicemente sperimentata negli ultimi anni:
Come incoraggiamento e viatico, godetevi intanto questo frammento dei “Dieci Comandamenti” di Roberto Benigni dedicato, manco a farlo apposta, alla felicità.
Anche questo sarà un modo per festeggiare la decima edizione degli incontri residenziali, che di tanta bellezza hanno segnato la nostra esperienza di Scuola.
Buon lavoro!
I vostri didatti
Bari, 5 marzo 2015